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Il cibo dei popoli del Parco, nella montagna tra Romagna e Toscana

Come parlavano le genti dei Popoli del Parco? Senz’altro in dialetto ed in modo vario.

Semplicisticamente si potrebbe dire “il toscano” e “il romagnolo”, ma sappiamo bene che non sarebbe vero né per uno né per l’altro: il toscano ha tante sfumature e non si può catalogare in maniera così sommaria. D’altro canto anche il romagnolo è in realtà un mondo variegato e, nella parte alta delle vallate, abbondantemente contaminato da vocaboli, vocalismo e modi di dire toscani, per non parlare di quelle zone, come Campigna e Pian del Grado, dove possiamo dire che si parla toscano.

E invece, parlando di cibo, come mangiavano quei montanari che sono rimasti aggrappati alla loro terra fino a una sessantina di anni fa?

Intanto collochiamo fisicamente il luogo in cui mangiavano, se non era nei campi al lavoro: la cucina. Era l’ambiente più grande della casa, con un camino imponente che a volte prendeva quasi tutta una parete. Intorno ad esso sedie di varia misura, per grandi e piccini, era infatti quello anche il luogo della veglia e dei racconti destinati ad accendere la fervida fantasia dei bambini ed a tramandare i saperi. Qui le donne cucinavano e talvolta gli odori delle pietanze si mescolavano alle vampate che salivano dalla stalla. I bambini con i loro giochi, i grandi con le loro chiacchiere, il tutto creava un’atmosfera gioiosa e piena di vita, anche perché le famiglie erano generalmente numerose.

La loro alimentazione era rimasta invariata per secoli, se si eccettuano le novità portate dalle Americhe, anche se i piatti erano stati rivisitati e variati, con un ingegno e una sapienza mirabili.

Legumi, cereali e castagne erano la base, che integravano con frutti selvatici ed erbe, di cui erano grandi conoscitori.

Il pane era naturalmente un altro fondamento dell’alimentazione, anche se su queste montagne si consumava spesso quello fatto con cereali inferiori. L’importanza del pane si manifestava anche nel rispetto che gli veniva portato: ai bambini si diceva che dovevano portarlo alla bocca con la mano destra e non con la sinistra; nell’apparecchiare la tavola dimenticarsi di mettere il pane avrebbe portato una disgrazia in famiglia; non lo si doveva mai appoggiare sulla tavola rovesciato, ecc.

Si consumava poca carne. Il maiale era una grande risorsa delle famiglie di un tempo e le sue carni, una volta lavorate, venivano conservate e mangiate per tutto l’anno.

C’erano poi i prodotti caseari, fatti con il latte di mucche, pecore e capre, spesso venduti al mercato o consumati in famiglia con molta parsimonia, modalità che caratterizzava l’alimentazione di allora.

Fin dal Medioevo c’era il problema di procurarsi il sale, che ovviamente non era prodotto in loco.

Certo la dieta di questi montanari non era molto ricca. Si legge dall’inchiesta parlamentare dei primi decenni del Regno d’Italia che prende il nome di “inchiesta Jacini” dal capo della commissione: “al monte […] pane pochissimo e perlopiù di mistura. Qualche minestra di frumento condita col lardo, molta castagna in polenta. Molto granturco (scambiato con castagne per amore più che altro di varietà) sotto la stessa forma”. Il mais fu introdotto in Romagna e in Casentino verso la fine del ‘700, sostituendo mano a mano i cereali minori.

Sulla scarsa varietà dell’alimentazione e sull’importanza della castagna, il vero “albero del pane” (come lo definì Senofonte nel IV secolo a. C.) è curioso riportare una filastrocca dell’Alto Savio, nell’idioma sampierano, esempio di quei dialetti citati poc’anzi:

San Catal dal bon engegn,
vin ed nuvle, pan ed legn,
per cambiar questa vivenda:
brisgi, baloci, castagni e pulenda

San Cataldo dal buon ingegno, vin di nuvole, pan di legno.
Per cambiar questa vivanda: caldarroste, ballotte, castagne e polenta.

Leggendo fra le righe il “vin di nuvole” è l’acqua. Nella parte alta delle vallate non c’era una grande produzione di vino, per questioni climatiche. Fa specie in questo senso il caso di Strabatenza, luogo di vigne che davano un buon vino, anzi due: uno bianco ed uno rosso, che Soldani da Poppi, cancelliere della Podesteria di Galeata nella seconda metà del ‘700, descrive con un’ardita licenza poetica per esigenze di rima: “fa ripien d’alma fragranza/quel liquor di Strabatanza”. Il “pan di legno” era invece la castagna, così preziosa per la dieta dei montanari, a cui è dedicata l’ironica conclusione della filastrocca in cui si dice che per cambiar vivanda si mangiano… ancora castagne! Castagne in tutte le forme possibili, fino alla polenta preparata con la farina… di castagne!

Eppure dalla miseria delle risorse a disposizione, grazie alla sapienza delle mani di queste donne capaci di gestire l’economia domestica in modo mirabile, ecco nascere alcuni piccoli capolavori della cucina del territorio, di qua o di là dal monte, in Romagna o in Toscana: l’acquacotta, la scottiglia, il tortello alla lastra, il raviggiolo, lo scottino, il lattaiolo… veri piccoli capolavori dell’arte di arrangiarsi in cucina.

 

Sull'argomento si è realizzata una mostra dal titolo "Mangiare ai tempi della fame" della quale è disponibile anche il catalogo.

Alcune informazioni sono state tratte da O. Bandini “il cibo povero della montagna: abitudini alimentari dei lavoratori e degli abitanti dell’Appennino tosco-romagnolo” in Il Bosco e lo schioppo. Vicende di una terra di confine tra Romagna e Toscana, a cura di G.L. Corradi e N. Graziani, Le Lettere, 1997.

Foto:
Mulino delle Cortine, Famiglia Milanesi, Archivio Onofrio Leoni
Strabatenza, Archivio Onofrio Leoni