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Continuano anche per il 2022 le attività nell’ambito della Direttiva Impollinatori finanziata dal Ministero dell’Ambiente. Lo scopo di questi fondi è quello di aumentare le conoscenze relative agli insetti pronubi, ovvero quegli insetti che con la loro attività favoriscono la riproduzione e aumentano la fertilità delle piante da fiore.

Uno degli aspetti che si stanno indagando è quello relativo alla conoscenza delle specie di api selvatiche presenti nel Parco delle Foreste Casentinesi. Per ape selvatica non si intende un’ape da miele che vive libera in natura o magari uno sciame sfuggito ad un apicoltore, si fa infatti riferimento a tutte quelle specie di api appartenenti alla superfamiglia Apoidea (dell’ordine degli imenotteri). Di questa grande famiglia fanno parte anche le note api da miele, ma occorre ricordare che in Italia sono conosciute più di 1000 specie di api selvatiche. Il mediterraneo è infatti uno dei maggiori scrigni di biodiversità a livello mondiale in questo senso.

All’interno del Parco con le attività del 2021 si sono già identificate poco meno di 100 specie differenti, appartenenti a 23 generi diversi. Questi numeri stanno aumentando grazie alle attività in corso e in futuro permetteranno di monitorare nel tempo la consistenza delle popolazioni di api selvatiche e il grado di conservazione della biodiversità, viste le crescenti minacce a cui questi organismi sono sottoposti.

Ma di cosa si alimentano queste specie selvatiche e di cosa invece le api da miele che vengono ‘custodite’ dagli apicoltori? Questo quesito è oggetto di un altro studio che si sta portando avanti grazie ai nidi artificiali per apoidei selvatici posizionati al momento al Giardino Botanico di Valbonella e presso l’agriturismo Poderone e grazie alla collaborazione di alcuni apicoltori che lavorano all’interno dell’area protetta. Tramite la raccolta di campioni di polline, nei diversi momenti della stagione, sarà possibile verificare le fonti nettarifere delle api selvatiche e delle api da miele, su cui ad oggi risulta una scarsa sovrapposizione.

Una delle attività svolte all’interno del progetto prevede inoltre la collaborazione con gli apicoltori attivi nel Parco o nelle immediate vicinanze dell’area protetta. Dai primi dati analizzati è emerso che ‘soltanto’ 34 apicoltori agiscono dentro Parco a fronte di circa 300 che agiscono nei comuni del Parco. L’apicoltura di gran lunga più diffusa è quella di tipo nomade, che prevede lo spostamento degli alveari in differenti apiari a seconda dell’andamento della stagione e della tipologia di fioriture presenti.  Soltanto 8 apiari su 59 totali all’interno del Parco sono di tipo stanziale: qui le arnie vengono quindi lasciate per tutto il periodo dell’anno nella stessa posizione.

Ma quali sono quindi le produzioni che gli apicoltori ‘inseguono’ e che di conseguenza caratterizzano maggiormente l’area protetta? Su tutte il miele di castagno e la melata d’abete. Quest’ultima in particolare può essere prodotta solo in determinate aree grazie alla presenza di conifere (anche con formazioni forestali di una certa estensione), caratteristica che appartiene a gran parte del crinale appenninico che unisce Emilia-Romagna e Toscana e che per essere sfruttata necessita quindi di apiari che per forza di cose vengono a trovarsi all’interno dell’area protetta.

In cosa consiste la collaborazione con gli apicoltori? A loro viene chiesto nell’ambito del progetto di fornire alcuni campioni di miele, di cera e anche di api. In questo modo vengono studiate le caratteristiche delle produzioni realizzate all’interno del Parco (campioni di miele e cera) ma anche la composizione delle popolazioni di Apis mellifera presenti, determinando le sottospecie allevate e l’eventuale presenza di ecotipi locali (api che trovandosi per lungo tempo in un determinato luogo si sono ‘adattate’ ad esso rendendo qui al meglio).

Dal primo anno di analisi è emerso che nel Parco abbiamo produzioni di ottima qualità, prive in assoluto di residui derivanti da fitofarmaci. Si sono riscontrati soltanto in casi sporadici alcuni residui di metalli pesanti comunque sempre inferiori ai limiti di legge (100 μg/kg), tali da risultare le migliori analisi effettuati dall’Università di “Tor Vergata” di Roma nell’anno 2021 su campioni da varie Parchi d’Italia.

L’origine di questi residui non è ancora certa e potrebbe dipendere da vari fattori, a partire dall’enorme utilizzo delle benzine al piombo fatto storicamente e che oggi potrebbe avere ancora ricadute, passando per le produzioni industriali, fino a possibili cause dovute alla sismicità di un territorio, visto che sembra che queste molecole altamente stabili attraverso faglie nel terreno possano raggiungere i diversi comparti ambientali fino a contaminare le matrici alimentari.

Le stagioni sempre più imprevedibili e caratterizzate da picchi freddi e caldi stanno rendendo negli ultimi anni sempre più difficile la sopravvivenza delle colonie di api da miele e ancora di più la ‘collaborazione’ tra api e apicoltori. In tempi di cambiamenti climatici attività di questo tipo rivestono quindi una particolare importanza: la funzione degli impollinatori è con ogni probabilità uno dei presupposti per la vita sulla terra così come la conosciamo e senza adeguate misure di conservazione le attività umane che traggono beneficio dalla loro funzione ecologica potrebbero trovarsi presto in serio pericolo.

Foto di Matteo Perini